Metabasis N. 36
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Tobias Dahlkvist, Nietzsche and the philosophy of pessimism. A study of Nietzsche’s relation to the pessimistic pradition: Schopenhauer, Hartmann, Leopardi

Uppsala Universitet, Stockholm, 2007

Marco Mantovani

Lo studio di Tobias Dahlkvist si ripropone di collocare adeguatamente la posizione di Nietzsche all’interno della filosofia del pessimismo. In questa operazione, non si tratta tout court di esercitare una lettura sub specie pessimismi dell’arco filosofico nietzscheano, ma di lasciar emergere la posizione di Nietzsche rispetto al problema del pessimismo rischiarandone il rapporto con i protagonisti di questa tradizione, in particolare con Schopenhauer, von Hartmann e Leopardi e di evidenziare la rilevanza del loro influsso sull’esperienza filosofica di Nietzsche. Più in dettaglio lo studio esibisce il processo di costituzione e definizione del pessimismo come concetto filosofico nella seconda metà del diciannovesimo secolo in ambito tedesco e delimitando in tal il dibattito filosofico e dispiegando le complesse relazioni che Nietzsche intrattiene con questa tradizione.

Dahlkvist, dichiaratamente, predilige all’indagine circa la soluzione teoretica del problema del pessimismo la ricostruzione della sua storia, in virtù di una prospettiva di ricerca scarsamente frequentata, attraverso la quale è, però, possibile apprezzare lo sviluppo del pensiero di Nietzsche proprio a partire dalla complessa trama dei suoi rapporti con la problematica e con la tradizione filosofica inaugurata dal Pessimismus-Debatte di metà secolo diciannovesimo. Questa scelta metodologica gli frutta un duplice merito: da un lato il suo lavoro rappresenta, infatti, per lo studio della storia delle idee uno strumento per mettere a fuoco un fenomeno culturale spesso inadeguatamente tematizzato dalla ricerca, nonostante caratterizzi spiccatamente la nostra civiltà; e dall’altro, più specificamente sul versante della Nietzscheforschung, mostra come in tutto l’arco filosofico nietzscheano il pessimismo pur con un decorso carsico, non solo orienti prese di posizione essenziali nella produzione di Nietzsche, ma altresì sostanzi il sostrato di filosofemi fondamentali, rappresentando, ad esempio, il contesto tematico da cui germina la precoce versione della dottrina dell’eterno ritorno. L’obiettivo e il punto di maggiore interesse del libro è proprio l’operazione mirata a circoscrivere la filosofia del pessimismo risalendo la genealogia della sua elaborazione e lasciandola emergere da radiazione di fondo della nostra cultura a movimento filosofico dotato di una fisionomia definita. Fondamentale diviene in questa direzione l’isolamento del nucleo concettuale pessimistico operato attraverso la decantazione del significato d’uso corrente del termine che fino al Die Welt als Wille und Vorstellung rimane legato a quello di antiteodicea. Nell’analizzare il pensiero schopenhaueriano Dahlkvist evidenzia come nonostante il termine, non appaia sino alla seconda edizione del 1844, esso rappresenti, al contrario, l’essenziale premessa al sistema schopenhaueriano. Distillato, dunque, dalla fallace reciproca definizione antonimica, inevitabilmente proiettata dall’ingombrante riferimento all’ottimismo leibniziano, il pessimismo esibisce il suo nucleo concettuale nell’impossibilità dell’esistenza ad essere giustificata. È essenzialmente a partire da questo epicentro tematico che l’analisi mostra come da un lato la filosofia del pessimismo generi differenti usi del concetto, quanto all’interno di questo plesso problematico la posizione di Nietzsche si costruisca originalmente. La generazione successiva a Schopenhauer si rivela essere però un riferimento imprescindibile per la centratura della posizione nietzscheana rispetto alla tradizione pessimistica, nella misura in cui essa si incaricò di proseguire il dibattito sul pessimismo imprimendo però una significativa torsione. Eduard von Hartmann ed Eugen Dühring rappresentarono, infatti, sul fronte pessimista gli agenti di un mutamento di prospettiva che abbandonando il piano della giustificazione dell’esistenza si focalizzò sul suo valore soppesando l’entità del dolore rispetto alla felicità e giungendo a formulare verdetti incontrovertibilmente pessimistici. In tal senso a in particolare a von Hartmann va attribuita la distinzione rilevante nella discussione tra una direttrice eudaimonologica, circa il valore dell’esistenza e di una direttrice storica della tradizione filosofica del pessimismo concernente il destino dell’umanità avviata verso il proprio sviluppo o declino.

Il problema del pessimismo, enunciato nella sua esiziale essenzialità della risata stridula del savio Sileno, si situa tra gli estremi del “nicht geboren zu sein, nicht zu sein, nichts zu sein” e del “bald zu sterben”. Se la prima opzione, il non esser punto, individua la concezione schopenhaueriana del pessimismo, in quanto preferibilità della non-esistenza all’esistenza, e dunque, sancisce l’impossibilità di quest’ultima ad essere giustificata; è la seconda, invece, il desiderio del precoce auto annientamento, a rappresentare l’opzione pratica conseguente alla torsione hartmanniana del concetto: il Pessimismus slitta dal livello della giustificazione a quello del valore dell’esistenza. Nel rapportarsi a questa duplicità di soluzioni e di livelli si delinea la variegata posizione di Nietzsche. Se il problema in Die Geburt der Tragödie è principalmente l’esigenza di non perire della verità del Sileno, l’orizzonte dell’opera appare essenzialmente pessimistico: nella tragedia, attraverso l’intervento di contenimento plastico dell’apollineo la pessimistica verità dionisiaca viene sopportata ed affermata. Il problema della giustificazione in Nietzsche dunque esibisce manifestamente, secondo quanto palesa lo studio di Dahlkvist, un’ascendenza non precipuamente teologica, ma, diversamente, connotata da una spiccata matrice pessimistica. Evidente appare infatti come la condanna dell’ottimismo scientifico-socratico discenda dalle conseguenze pratiche della sovversione dialettica euripideo-socratica: la visione della terribilità della verità senza l’antiemetico dell’arte annienta l’individuo ed invera le premesse pessimistiche. In Die Geburt der Tragödie Nietzsche continua, dunque, la riflessione sul pessimismo con l’importante variante rispetto ai frammenti postumi coevi al suo libro d’esordio: la visione dell’essenza dolente della realtà spalancata dalla scienza non conduce al pessimismo, ma viene assorbita dal dionisismo della tragedia, forma d’arte nella quale si realizza la possibilità di stornare poieticamente la visione dell’assenza di valore dell’esistenza. In questa potenzialità vuole credere Nietzsche allorché considera il Gesamtkunstwerk wagneriano l’accadimento culturale in grado di redimere dal filisteismo imperiale ed imperante la cultura tedesca.

Per coloro che andranno ad accrescere la schiera dei pessimisti, tra cui Agnes Taubert, Philipp Mainländer e Julius Bahnsen il riferimento filosofico è rappresentato proprio dall’utilizzo hartmanniano del concetto di pessimismo: la consapevolezza dell’impossibilità che i voleri dell’uomo possano essere soddisfatti conduce a preferire la morte alla vita. La strategia argomentativa del fronte anti-pessimista, tra cui si annoverano Jürgen Bona Meyer, James Sully e Max Nordau, pur accendendo il dibattito sulle modalità e i principi di valutazione del piacere o del dispiacere garantiti dall’esistenza e rinvenendo nel pessimismo un sintomo patologico, resta ancorata alla tematizzazione hartmanniana. Nel processo di progressiva definizione del concetto di pessimismo nel corso degli anni sessanta del secolo scorso e di consolidamento degli anni settanta e ottanta ricopre un ruolo rilevante seppur eccentrico rispetto al fuoco del dibattito sul pessimismo Giacomo Leopardi. Sebbene ammirato e accolto dai filosofi pessimisti tra gli aderenti alla loro visione filosofica in ragione degli innegabili tratti pessimistici dei suoi poemi, aforismi e dialoghi, quali il tedio e il doloro come tratti essenziali della vita, la mancanza in Leopardi di una verace fondazione metafisica del pessimismo e di un atteggiamento ambiguo nei confronti di esso, segnano uno smarcamento dall’uso del termine pessimismo elaborato dalla nascente tradizione filosofica pessimista tedesca e certificano come la visione filosofica leopardiana si ricolleghi più plausibilmente all’accezione prefilosofica di antiteodicea.

Se nella fase di mezzo del suo arco filosofico rigettava le conclusioni ma conservava le premesse dei pessimisti, nella fase tarda della sua riflessione lo sguardo di Nietzsche disamina criticamente proprio queste premesse, come la dottrina della conoscenza intuitiva di Schopenhauer sul piano teoretico e, invece, sferza, su quello pratico, l’onestà intellettuale di coloro che disprezzano la vita ma vi restano ben saldi.

Che la dimensione pratica del pessimismo sia quella che sta maggiormente a cuore a Nietzsche appare evidente proprio in ragione dal suo rapporto con la versione del pessimismo di matrice hartmanniana: pur nei commenti sprezzanti e derisori che gli riservò in Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben non si può negare che questa frequentazione segni l’inizio dell’interesse di Nietzsche per il pessimismo. È infatti il 1869 l’anno nel quale il tema del pessimismo entra nell’agenda filosofica nietzscheana, e ciò è provato dall’evidenza che sebbene la lettura di Schopenhauer sia di quattro anni precedente, Nietzsche non si riferisca a Schopenhauer annoverandolo tra i pessimisti prima dell’anno nel quale effettuò la lettura del libro di Eduard von Hartmann Philosophie des Unbewussten; ed è ancora nel 1886 nel Versuch einer Selbstkritik, definita tardiva prefazione o conclusione, che Nietzsche appose retrospettivamente, appunto a suggello del problema della nascita della tragedia dallo spirito della musica il grosso punto interrogativo circa il Werth des Daseins. Ciò non significa che però in questa fase Nietzsche sia ancora alle prese con il problema cornuto del pessimismo: la presa di distanza dall’opera, dal dedicatario e dal suo fantasmatico ispiratore segna un allontanamento dalla tematica non nel senso che ora il pessimismo sia divenuto marginale o sfuocato nella riflessione di Nietzsche ma che invece esso, attraverso un movimento genealogicamente retrocedente si trovi ora ricollocato nella costellazione concettuale del nichilismo: negli anni ottanta la centralità della riflessione nietzscheana si ritrae dal territorio speculativo del valore a quello logicamente prioritario del significato. Con questo arretramento prospettico il pessimismo pur non svanendo affatto nelle frequentazioni filosofiche di Nietzsche esaurisce la sua inerzia euristica: il pessimismo da condizione necessaria che deve essere superata decade a fenomeno patologico, a melanconica devianza di nature dolenti, a sintomo di decadenza. Si potrebbe azzardare che Nietzsche realizzi un attraversamento del pessimismo per giungere ad inverarne e a svelarne l’eziologia nichilista ed in questo percorso Nietzsche si faccia incontro all’ombra dolente proiettata dall’ospite più inquietante della nostra epoca. Questa metabasi viene nello studio di Dahlkvist illustrata dalla parabola compiuta dal personaggio di Amleto nella riflessione nietzscheana. Il principe sheakespeariano, a cui gli eventi di matrice edipica conferiscono una visione privilegiata seppur disperante del mondo, diviene ritratto epifanico del rispecchiamento delle differenti posizioni assunte da Nietzsche nei confronti del pessimismo. Il precipitato del dionisismo che emerge nella Hamlet-Lehre del celeberrimo soliloquio del terzo atto a cui Nietzsche si richiama nella Geburt der Tragödie quale intuizione dell’essenza della realtà che priva della volontà di agire, si converte, nel percorso di confronto di Nietzsche col pessimismo, in un sintomo di insanità: se il personaggio rimane incarnazione del pessimismo, l’interpretazione che a quest’ultimo sintomo è sottesa muta sino a trascolorare nel ridicolo.
Un altro riferimento rilevante per contestualizzare la relazione che Nietzsche intrattiene con la filosofia del pessimismo è rappresentato dal confronto con la produzione e riflessione di Leopardi. Dall’ammirazione peraltro suffragata da una conoscenza frammentaria e mediata dalle traduzioni di netta ispirazione schopenhaueriana di Robert Hamerling, Gustav Brandes e Paul Heyse, Nietzsche passa a considerare il suo lamento per la sofferenza che inerisce essenzialmente alla vita come debolezza e sintomo di una salute degenerata che trae origine da una sessualità perversa. Nuovamente è possibile apprezzare come Nietzsche da una preliminare accettazione delle premesse pessimistiche pur non venendo cooptato dagli anti-pessimisti, si allinei sulle loro conclusioni evidenziando come nella sue interpretazione il pessimismo sia decaduto da serio tema filosofico a fenomeno patologico.

Non tutte le forme di nichilismo sono però biasimevoli, giaccé l’assenza di significato della vita rappresenta un’opportunità di nuova creazione del senso. Il pessimismo della forza, ispirato a Nietzsche dalla figura di Montaigne, sostanzia la facoltà tragica di poter accogliere una visione tanto disperante quanto affermatrice della vita. In questo senso diviene possibile apprezzare grazie all’opera di Dahlkvist la fungenza del contesto pessimistico nel concepimento della dottrina dell’eterno ritorno, enunciata, pur in una forma germinale ma già nitidamennte intesa quale rimedio anti-pessimistico nella seconda Unzeitgemaße Betrachtung: il supplizio o il suggello del rivivere la propria vita rappresenta anche l’ordalia in virtù della quale un individuo manifesta di avere o meno quella forza e quella salute che non solo non si lascia annichilire sul piano pratico dalle premesse teoriche pessimistiche, ma ricuce quello scollamento inaugurato da Schopenhauer tra la dimensione metafisica e quella pratica del pessimismo, individuando nelle ansie ottimistiche della scienza un elemento essenzialmente nichilista.

In conclusione si potrebbe azzardare da quanto emerge dallo studio il giudizio secondo il quale il pessimismo rappresenti un problema tanto esogeno quanto endogeno della filosofia di Nietzsche: esogeno nella misura in cui il dibattito sul significato del termine rappresenta un riferimento fondamentale, come appare dalla struttura chiastica della prosopopea anche stilistica delle Unzeitgemässe Betrachtungen; ed endogeno perché proprio come per Wagner in Richard Wagner in Bayreuth l’odio verso il proprio tempo promana da un odio anche per ciò che in se stessi, sotto forma di demone possente con questo mondo la natura condivide. Allo stesso modo quella che l’autore chiama una “lugubre e dolente striatura” nel pensiero di Nietzsche emerge dallo studio come un elemento che pur non trovandosi fatalmente inserito in modo sistemico funge da elemento genetico dell’impegno filosofico nietzscheano.

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