Metabasis N. 36
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Carmelo Muscato, L’enigma della scelta. Un approccio cognitivo e filosofico-politico

Mimesis, Milano, Udine, 2011, pp. 154

Gabriele De Anna

La filosofia contemporanea, soprattutto quella che rientra nella tradizione analitica, è caratterizzata da una variante di naturalismo, il fiscalismo. Secondo questa concezione, tutto ciò che esiste sarebbe identico o riconducibile alle particelle elementari di cui parla la fisica contemporanea e alle loro interazioni. Questo varrebbe anche per l’uomo, per l’agire umano e per le realtà generate dal suo agire, ossia le società e le comunità politiche. Se le cose stessero così, lo studio della realtà, anche di quella politica e sociale, sarebbe appannaggio esclusivo della scienza, o, potremmo dire, di scienze particolari, adeguate all’oggetto: l’agire umano e politico sarebbero, quindi, oggetti delle scienze sociali, dell’economia, della psicologia sociale e cognitiva, delle neuroscienze. Al filosofo non resterebbe altro da fare che mostrare come l’esperienza e il linguaggio comuni possano essere naturalizzati, ossia ricondotti (riducendoli o eliminandoli) a quelli delle scienze. Ma la nostra esperienza dell’agire umano e delle sue concrezioni politiche e sociali sono interamente imbrigliabili dalle scienze?

Dubbi seri verso questa prospettiva sono aperti dall’agile libro di Carmelo Muscato, che con lucidità e chiarezza riesce a condurre il lettore non esperto attraverso i tentativi di spiegare l’agire umano proposti dalle scienze contemporanee, per portarlo ad una conclusione filosoficamente profonda: i successi, pure indubbi, delle scienze contemporanee sono parziali, poiché partono da una concezione semplificata dell’agire umano e di questo trascurano aspetti che pure si danno alla nostra esperienza e che la filosofia deve quindi includere nel suo tentativo di comprendere la realtà. La semplificazione consiste nel fatto che, nell’analizzare l’agire umano, le scienze contemporanee considerano solo l’uso strumentale della ragione, ossia l’utilizzo della ragione per individuare i mezzi più idonei a raggiungere fini prefissati. In questo, si mantengono fedeli alla tradizione che ha trionfato con Hobbes e che, attraverso l’empirismo, è giunta fino a noi. Ma l’esperienza ci attesta che noi deliberiamo anche sui fini delle nostre azioni, come avevano già rilevano le letture dell’azione umana proposte da Platone e da Aristotele. Per questo, assolutizzando i risultati delle scienze contemporanee, si finirebbe per falsare la realtà.

Il primo capitolo del libro verte sui successi e i limiti della teoria della scelta razionale (TSR), che viene analizzata nella formulazione classica della teoria dei giochi di von Neumann e Morgenstern, ma di cui si rintracciano le radici nel pensiero di Hobbes e negli esiti di questo, l’empirismo e l’utilitarismo. Contrariamente a quanto si potrebbe temere, il libro non confonde tra loro posizioni così diverse, ma mette efficacemente in luce come le indubbie differenze tra di loro derivino dal tentativo di risolvere, in modi diversi, i problemi che insorgono dalla tesi di Hobbes secondo la quale la ragione avrebbe un ruolo solo strumentale. Questa stessa impostazione comporterebbe il primato dell’economia nello studio del vivere sociale dell’uomo, e, di conseguenza, un vero “colonialismo” dell’economia nei confronti delle altre scienze sociali.
Il secondo capitolo considera gli sviluppi dell’economia cognitiva, che, a partire dagli anni Settanta, ha messo in dubbio gli assunti del pensiero economico neoclassico basato sulla TSR: per il nuovo orientamento, iniziato da Kahneman e Tversky, nelle loro scelte, gli uomini non seguono procedimenti logici definibili con una teoria normativa come la TSR, ma processi che possono essere studiati con i metodi della psicologia. L’economia deve considerare come gli uomini di fatto scelgono, non come dovrebbero scegliere; e lo studio empirico della scelta umana sarebbe appannaggio della psicologia. Uno degli aspetti studiati da Kahnemann e Tversky è il framing effect, ossia il fenomeno per cui il modo in cui è definito un problema o articolato un contesto di scelta influisce sull’esito della decisione. La conoscenza di questi aspetti della psicologia cognitiva offre nuovi strumenti di potere a chi può formulare i problemi o determinare i contesti di scelta (in primis le autorità politiche), e apre per questo nuovi problemi etici a livello sociale e politico. Lo studio sistematico dei biases introdotti dai contesti di decisione ha portato alla formulazione del libertaian paternalism di Sunstein e Thaler, per i quali il condizionamento da parte di chi definisce i contesti di scelta è inevitabile e quindi deve essere usato, da chi ne ha la possibilità, per raggiungere fini razionali, a prescindere dal consenso di coloro che si trovano a subire queste “spinte”, ma pur senza determinare completamente le loro scelte e, quindi, senza compromettere la loro libertà.

Ma è possibile conciliare libertà e “spintarelle” paternalistiche? Nel terzo capitolo, Muscato discute vari dibattiti avvenuti intorno al paternalismo libertario e conclude che la posizione si rivela contraddittoria; secondo lui la contraddizione dipende dal tentativo di proporre “un rimedio ad hoc, con interventi che di volta in volta tengono conto dei limiti cognitivi emersi, senza preoccuparsi di affrontare il problema generale della concezione politica fondata su quella nozione di scelta libera e autodeterminata, di cui le ricerche cognitive hanno messo in evidenza la problematicità. Inoltre la strada fin qui battuta finisce col dar ragione ai critici del paternalismo, poiché la nozione di libertà che sta alla base della teoria democratica non ammette limitazioni. Ogni limitazione, per quanto ragionevole è sempre suscettibile di diventare eccessiva” e “il paternalismo risulterà sempre inaccettabile” (p. 84). Il problema è che anche gli approcci cognitivi rimangono fedeli all’idea della ragione come ragione strumentale e pensano alla libertà come possibilità di raggiungere fini che non hanno nulla a che fare con la scelta razionale, ma dipendono da altro (istinto). Per loro, possiamo dire noi, la libertà è libertà negativa, pura assenza di vincoli alla possibilità di realizzare una volontà intesa come scevra da qualsiasi finalità intrinseca. Economisti neo-classici, paternalisti libertari, critici del paternalismo: tutti ammettono la ragione come puro strumento e pensano che essa non abbia nulla a che fare con la determinazioni dei fini dell’azione; le loro divergenze vertono solo sul ruolo che la ragione così intesa deve avere nell’analisi economica, e sul ruolo che possono avere le autorità politiche nel plasmare gli istinti che determinano i fini delle azioni umane.

Il quarto capitolo si occupa del rapporto tra decisione e neurobiologia: se la ragione fosse riducibile alla ragione strumentale, sarebbero proprio la neurobiologia e la spiegazione evoluzionistica del sistema nervoso umano a dar conto dei fini dell’agire. Ma Muscato nota che le più avanzate ricerche in questo settore, come quelle di Read Montague, evidenziano che le finalità dell’azione non sono predefinite nel sistema neurale (p. 102), ma, anzi, per spiegare il funzionamento di questo bisogna ammettere che l’organismo che lo possiede sia capace di distinguere obiettivi immediati e fini ulteriori, e di scegliere i primi sulla base dei secondi (pp. 112 e ss.). Questo risultato è fondamentale, per Muscato, perché mette in scacco l’intera tradizione strumentalista della ragione; anche se non gli sfugge un limite di Montagne: questi non si accorge che “un sistema che[…] definisce dinamicamente gli scopi, può funzionare solo in quanto è guidato da qualcosa di stabile, che appunto possiamo indicare come il fine della scelta” (p. 116).

Quella di Muscato non è proprio una critica al lavoro di Montagne, quanto il riconoscimento che la sua portata è elusivamente empirica e che i risultati raggiunti richiedono un’interpretazione concettuale e un approfondimento filosofico. Muscato offre tutto questo nell’ultimo capitolo, dedicato al rapporto tra decisione e filosofia politica. Qui l’autore distingue la concezione moderna della razionalità che si è imposta con Hobbes ed è prevalsa in tutta la filosofia moderna, fino agli esiti contemporanei discussi nel libro, dalla concezione antica che ha trovato la sua espressione più completa in Aristotele. Se per la concezione moderna la ragione è solo strumento, per gli antichi era principalmente intellezione della realtà, di una realtà che si dà empiricamente, ma il cui essere trascende il dato empirico; la ragione può scegliere perché riconosce nella realtà un ordine che orienta la condotta umana, divenendo criterio oggettivo di giudizio e metro di giustizia politica; ma proprio perché trascende la ragione, l’ordine non può mai esser esaurito dalla ragione di alcuno e così il detentore del potere politico supremo non può mai pretendere che il suo potere sia assoluto; qui la grande diversità con la concezione moderna: per questa i fini sono sempre soggettivi e arazionali; la ragione non può essere colta da coloro che sono soggetti al potere, ma solo imposta a loro; e per questo il potere del politico non ha limite morale o razionale: è assoluto. Il termine “paternalismo” suggerisce già una violazione della razionalità di colui che obbedisce, e in questo modo dipende dalla concezione moderna, perché non riconosce che, come attesta l’esperienza, l’uomo che obbedisce alla legge non risponde ciecamente alla forza o alla prepotenza, ma può e deve acconsentire con la sua ragione al comando, se questo è razionale. Se si considerasse questo punto, come facevano gli antichi, si vedrebbe che i limiti posti alla libertà, se conformi all’ordine e al bene oggettivo, non la violano, ma l’esaltano. Se invece questo aspetto sfugge, come tra i moderni, si finisce con l’abbracciare una concezione della ragione e della libertà che porta al predominio dell’economia: “si può dunque affermare che il primato dell’economia non sia un fatto casuale, ma la conseguenza dell’assolutizzazione della ragione che, negando ogni valore trascendente, conduce a una visione dell’uomo e del mondo incentrata sulla sopravvalutazione dei beni immanenti” (pp. 144-5). Concepito in questo contesto, l’ordine politico diviene succube della decisione economica e finisce per “considerare irrilevante o non esistente tutto ciò che non può essere compreso all’interno delle sue procedure” (p. 145).
Come dicevo, del libro colpiscono la lucidità e la chiarezza: si tratta di lucidità e chiarezza nell’architettura dell’argomento intero, nella spiegazione delle caratteristiche distintive delle varie teorie trattate, negli argomenti atti a ribaltare modalità di pensiero usuali e consolidate, nella spiegazione a livello elementare di teorie non semplici da riassumere. Qualcuno lamenterà la brevità e la rapidità con cui sono trattate alcune questioni tecniche e certi aspetti problematici delle teorie considerate. Ma vorrei suggerire che quello che può apparire un limite è un’autentica virtù: Muscato non si fa mai tentare dal desiderio di perdersi in tutte le implicazioni possibili delle teorie che tratta e mantiene la sua analisi sempre volta all’essenziale, cioè alle assunzioni e ai principi che caratterizzano e diversificano le varie posizioni, per ridurle ad unità riconducendole ai principi comuni. Questo è un procedimento autenticamente teoretico, che non solo rende perspicuo il suo processo di pensiero, ma anche fonda filosoficamente la sua conclusione: la dialettica tra moderno e antico non indulge mai all’erudizione o alla mera descrizione, bensì mette in luce la continuità di un corno dialettico, costituito da un’argomentazione che attraversa la storia moderna e che trova il suo momento confutatorio nella psicologia empirica contemporanea. Ripropone così la verità del corno opposto, affermando l’attualità dei principi della filosofia politica classica.

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