Metabasis N. 36
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Paolo Bellini, Mitopie tecnopolitiche. Stato-nazione, impero e globalizzazione

Mimesis, Milano, 2011, pp.144

Leonarda Vaiana

Agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso uno storico dell’economia, Carlo Maria Cipolla, notava che gli storici spesso hanno abusato del termine rivoluzione, affermando che «nessuna rivoluzione è stata così drammaticamente rivoluzionaria come la rivoluzione industriale, salvo forse la rivoluzione neolitica» [1]. Affermazione plausibile ma che necessita di qualche precisazione. Innanzitutto bisogna guardarsi dalla tendenza a leggere il passato sopravvalutando il presente, con il risultato di assumere una prospettiva deformante. Questa tendenza è presente nella canonica divisione delle età della storia, secondo cui abbiamo un’età antica della durata di 4000 anni, un medioevo di 1000 anni, un’età moderna di 300 anni. È chiaro che i cambiamenti epocali non avvengono con regolarità ma sembra altrettanto chiaro che siamo di fronte a una vistosa sopravvalutazione dell’importanza dei mutamenti a noi più vicini. Pertanto, riprendendo l’affermazione di sopra, sarebbe più opportuno invertire l’ordine e ritenere come mutamento certamente rivoluzionario quello che ha segnato il passaggio al neolitico e come probabile quello determinato dalla rivoluzione industriale. Mettendo da parte ogni questione puramente terminologica e volendo servirsi di un criterio sufficientemente condivisibile, si può ritenere che un mutamento radicale della storia è quello che determina un mutamento antropologico, un nuovo tipo umano. Con la scoperta dell’agricoltura l’uomo non ha modificato solo la sua economia ma il suo stesso essere uomo: non più animale le cui facoltà cognitive sono rivolte all’unico scopo di mantenersi in vita, ma essere che pianifica, che riflette sul proprio futuro e che si avvia ad assumere un ruolo attivo nel rapporto con il mondo circostante.

In secondo luogo un cambiamento epocale non è qualcosa che avviene in alcuni decenni e nemmeno in pochi secoli. La rivoluzione di cui abbiamo parlato e che segna il passaggio dall’uomo paleolitico a quello neolitico non è un mutamento repentino ma riguarda piuttosto quel lungo periodo di transizione che dura circa 2000 anni, denominato mesolitico. Queste considerazioni dovrebbero farci riflettere e renderci più cauti nella valutazione dei mutamenti a noi vicini e spingerci verso interpretazioni del presente alla luce dei processi storici che abbracciano un periodo sufficientemente ampio. Da questo punto di vista la rivoluzione industriale può essere considerata una rivoluzione nel senso più proprio, ossia come rivoluzione antropologica, solo se con tale espressione non ci si riferisce esclusivamente alle trasformazioni del sistema produttivo verificatesi nell’arco di circa due secoli, ma a un processo più ampio che comprenda il mutamento culturale e politico iniziato con l’età moderna e tuttora in corso.

Di quest’ultimo cambiamento epocale dà conto il saggio Mitopie tecnopolitiche di Paolo Bellini (Mimesis, Milano 2011, pp. 144, euro 14,00), che offre una spiegazione dei mutamenti più recenti sul piano antropologico e politico sulla base di un’interpretazione unitaria degli ultimi cinque secoli di storia. Il libro di Bellini parte dalla constatazione che la rivoluzione informatica e la globalizzazione hanno determinato la crisi dell’uomo borghese e dello stato-nazione e quindi la nascita di «un nuovo tipo umano e nuovi sistemi politici». Tipo umano e sistemi politici che, essendo nella loro fase di maturazione, possono non essere facilmente riconoscibili ma che l’Autore individua rispettivamente nel cyborg, contrazione dei termini “organismo” e “cibernetico”, e nell’impero liberale, ossia una nuova entità politica sovranazionale che essendo fondata sui principi liberali possa garantire una razionale convivenza del mondo globalizzato.

Ciò che è di maggiore interesse nell’analisi filosofico-politica proposta da Bellini è il fatto che essa offre una spiegazione delle trasformazioni in atto a partire da un mutamento profondo nei modi della rappresentazione e della comunicazione che, all’inizio dell’età moderna, ha determinato la nascita della “mitopia”, termine coniato dall’Autore che indica la fusione e la compresenza del mito e dell’utopia, che con la loro alternanza e opposizione dialettica costituivano i modi della rappresentazione dell’età premoderna.

Più precisamente, secondo Bellini, ogni possibile rappresentazione della realtà si dispiega all’interno di due polarità fondamentali: quella del mito (inteso come pensiero immaginante che si esprime mediante un linguaggio simbolico) e quella del logos (inteso come pensiero logico-razionale che si esprime mediante il segno). Nessuna rappresentazione è mai puramente ed esclusivamente solo segnica o solo simbolica, semmai può avere una predominanza ora dell’uno o dell’altro elemento (p. 35). Il modo di organizzarsi di questi due elementi determina il volto di una civiltà e di una data epoca. Nell’età premoderna la rappresentazione risultava organizzata attorno all’alternanza e alla distinta presenza del mito e dell’utopia. Il mito costituiva la narrazione fondativa, la giustificazione dell’ordinamento politico costituito sulla base della contemplazione dell’ordine cosmico. L’utopia, in quanto racconto o progetto che mira a modificare l’ordine costituito, all’opposto costituiva l’alternativa all’ordine costituito. L’utopia, dice Bellini, è la «costruzione di un modello alternativo e speculare rispetto alla realtà, il quale innesta nel percorso immaginativo le istanze caratteristiche del logos raziocinante e operativo, votato alla trasformazione del mondo» (pp. 50-51).

D’altra parte i mezzi del comunicare e gli strumenti tecnologici in generale influenzano la forma mentis, la cultura di ogni civiltà, in quanto la struttura profonda della coscienza interagisce, plasma e viene, allo stesso tempo, influenzata dai mezzi tecnologici utilizzati (pp. 26-27).
Cosa, infatti, accade all’inizio dell’età moderna?

La rivoluzione scientifica, l’innovazione tecnologica e il nuovo sistema di comunicazione di massa iniziato con la diffusione della stampa hanno condotto alla sostituzione dell’alternanza di mito e utopia con la loro fusione in quel nuovo genere di rappresentazione che Bellini denomina mitopia. La mitopia sostituisce la visione dell’ordine cosmico, che è in sé la rappresentazione di un ordine compiuto e immodificabile del mondo, con una visione che non ha più questo carattere di fissità e di stabilità, ma è la rappresentazione di una realtà fluida e in divenire.

Infatti la visione mitica è la visione di un mondo retto da un principio sovrannaturale, mentre la visione del mondo che scaturisce dalla rivoluzione scientifica vuole essere una spiegazione naturale che, dovendo fare a meno di ogni spiegazione sovrannaturale, prospetta la realtà come un processo evolutivo, secondo quanto affermerà chiaramente la dottrina darwiniana. La mitopia dunque da un lato, come il mito, è una rappresentazione della realtà nella sua totalità, una spiegazione ultima e fondativa. Dall’altro, in quanto deve fare a meno di ogni spiegazione sovrannaturale, è una rappresentazione della realtà come processo naturale evolutivo, e perciò sempre incompiuto, inglobando in sé il carattere performativo tipico dell’utopia.

Il primo effetto di questo mutamento, cioè la prima mitopia, è sul piano politico l’affermazione dello stato-nazione a cui corrisponde sul piano della soggettività il tipo dell’uomo borghese. Lo stato-nazione costituisce l’abbandono della legittimazione politica a partire da un principio sovrannaturale tipico della visione mitica, mentre l’uomo borghese è il nuovo modo  pensare il soggetto come individuo separato anziché come parte di un ordine cosmico.
Questo modo di rappresentazione dell’uomo e della politica radicalmente nuovo rispetto a quello premoderno si è così affermato negli ultimi secoli della storia occidentale sino a essere scambiato per un modello universalmente desiderabile e quasi imperituro. Tuttavia nel secolo scorso l’idea dello stato-nazione e del corrispondente uomo borghese sono entrati irrimediabilmente in crisi e ciò che ancora rimane di essi non è che il residuo di un’epoca tramontata, comunque condannato all’estinzione di fronte all’avanzare della globalizzazione e dell’informatizzazione. Infatti il progresso della biologia e dell’informatica sta imponendo un nuovo mutamento nella rappresentazione che mette in discussione la classica distinzione tra pubblico e privato su cui si fondava la civiltà moderna. Molte delle funzioni mentali che venivano considerate tipiche della sfera personale nell’era del computer e di internet si ritrovano proiettate verso l’esterno. Quindi attraverso la creazione del cyberspazio, che diventa il luogo dove esternalizzare totalmente in tempo reale la propria interiorità, emerge l’irrefrenabile desiderio di connessioni plurime in cui la visibilità virtuale tende a confondersi con l’esistenza (p. 55).

Ecco quindi l’emergere del cyborg, il nuovo tipo umano che inizialmente popola solo la letteratura fantastica ma che gradualmente si avvia a diventare una realtà concreta. Il termine cyborg individua qualsiasi forma di vita, anche di tipo umanoide, composta da parti naturali e parti artificiali, come frutto di una manipolazione tecnologica più o meno invasiva. Gli OGM sono un noto esempio di tale manipolazione (58-59). Qui il discorso di Bellini si fa inquietante, lasciando intendere come, seguendo questa logica, in un futuro più o meno prossimo non è escluso che si pensi a una manipolazione genetica dello stesso essere umano. L’Autore non assume una posizione favorevole o contraria a questo nuovo corso, tuttavia la sua analisi si rivela acuta nel mostrare come questo sia l’esito inevitabile di quel cambiamento/rivoluzione che è l’affermazione della mitopia.

Infatti, a differenza di quanto avveniva nell’età premoderna, l’azione tipicamente performativa che era dell’utopia non è più un’opposizione, un pensare una realtà altra, ma è un inserirsi nello stesso processo naturale, modificandone il corso: conoscendo le leggi della natura si può interferire con essa. Senza che questo costituisca più la violazione di un ordine naturale, dal momento che un processo naturale è appunto un processo incompiuto e non compiutamente prestabilito. Quindi la manipolazione genetica, che all’interno di una visione premoderna sarebbe stata inconcepibile, ora ha non ha più niente di illegittimo. La mitopia «individua il proprio oggetto non come in sé stesso compiuto (come nel caso del mito), ma come qualcosa di sempre perfettibile e migliorabile (di conseguenza suscettibile anche di un peggioramento), che lo rende fluido, instabile e soggetto allo scorrere del divenire» (p. 55). E all’interno di questa visione evoluzionistica ogni tentativo di porre un limite all’azione performativa del’uomo sarebbe incoerente.

Quello che è certo è che questo nuovo tipo di uomo, i cui confini e la cui identità, sia a livello individuale che collettivo, diventano sempre più labili e sfumati, richiede un nuovo ordinamento politico, che tenga conto dell’attuale processo della globalizzazione. Per un tale ordinamento politico che, non potendo più essere lo stato-nazione, deve necessariamente avere un carattere sovranazionale, Bellini ripropone un concetto del passato, l’impero, in una versione inedita e quasi ossimorica, retta sui principi liberali.


[1] C.M. Cipolla, La rivoluzione industriale, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, a cura di L. Firpo, UTET, Torino, 1972, p. 11.

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