Metabasis N. 36
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Franco Ferrari (a cura di), I miti di Platone, con una premessa di Mario Vegetti

BUR, 2006, pp. 360

Giangiacomo Vale

In questa preziosa antologia dei miti più celebri presenti nei dialoghi platonici, merito di Ferrari è quello di prendere in considerazione non solo i miti ma tutte quelle forme di discorsività che rinviano ad una dimensione mitologica, sottolineando il rapporto tra queste e la dialettica filosofica senza inscriverlo in una troppo scontata dicotomia mythos/logos ed analizzandone invece le interazioni e le rispettive funzionalità nell’ottica della fondazione della filosofia platonica come stile intellettuale. Sottolineando che il mito platonico non è mai alternativo alla razionalità filosofica, Ferrari sposta così il problema sul piano dell’interpretazione del significato di questa forma discorsiva all’interno della costruzione della filosofia di Platone e più in generale del rapporto tra l’immaginazione mitopoietica e la razionalità filosofica della tradizione occidentale. Egli ci offre così un’interpretazione che trascende il conflitto sugli “equivoci” dei miti platonici per cui da una parte il mito platonico sarebbe lo strumento privilegiato per esprimere le supreme verità filosofiche, costitutivamente sottratte alle procedure razionali dell’argomentazione (il mito sarebbe in questo modo l’espressione più autentica del pensiero platonico), e dall’altra un fastidioso ornamento letterario-rappresentativo e retorico che complica la comprensione e di cui il pensiero filosofico, che usa i concetti e non le immagini, dovrebbe liberarsi.

Cosciente della complessità del percorso di Platone, in equilibrio tra la dimensione di falsità del mito e la consapevolezza che di questa stessa falsità la filosofia e la politica non possono fare a meno, Ferrari parte dunque da una lettura dei miti platonici secondo lo schema tradizionale della sequenza temporale dal mythos al logos – dall’originaria indistinzione tra mythos e logos (per cui i due concetti si sovrappongono anche semanticamente), alla loro contrapposizione, che segna il trionfo della razionalità scientifico-filosofica sull’immaginazione mitica – ma giunge a dirci che non ci si può limitare ad una tale lettura se si vuole capire il significato di una presenza, quella del mito nei dialoghi platonici, che sembra a tutti gli effetti paradossale. Paradossale, innanzitutto, perché se da una parte Platone riconduce la persuasione alla dimensione dell’argomentazione dialettica, dall’altra presenta importanti concezioni filosofiche nella forma monologica del racconto mitico (quindi non dialettica e non problematica). Paradossale, soprattutto, per la stessa presenza pervasiva di miti nei dialoghi platonici, nonostante l’attacco radicale al mito fatto nella Repubblica e nelle Leggi, attacco che poggia sul doppio registro di falsità di quest’ultimo, legato da una parte al suo statuto ontologico (essendo parte integrante della poesia imitativa, che riproduce un ambito ontologico che è già a sua volta riproduzione di quello intelligibile, è due volte lontano dalla verità), dall’altra ai contenuti della mitologia tradizionale veicolata dalla poesia arcaica (fornendo immagini false e pericolose della natura degli dei è diseducativa per i giovani che devono essere educati alla virtù).

Presenza paradossale, ancora, perché l’estraneità alla verità e la pericolosità della mitologia tradizionale dal punto di vista pedagogico, motivi per i quali dovrebbe essere bandita dalla città, non bastano però a Platone per negare la sua importanza politica e dunque auspicare la sua presenza nella polis, accuratamente sorvegliata nei contenuti dal legislatore, a cui spetta di stabilire i modelli (typoi) ai quali i miti devono conformarsi per essere moralmente accettabili e pedagogicamente utili.
Nel tentativo di chiarire questo apparente paradosso, Ferrari ci propone una definizione del mito platonico che si discosta sia dalle ripartizioni classiche per cui sarebbero miti solo quelle parti dei dialoghi che vengono esplicitamente introdotte come tali (in cui compare dunque il termine mythos), sia da classificazioni basate su criteri formali (chi lo racconta, il suo carattere monologico e non dialogico, ecc). Sottolineando la mancanza di un unico parametro valido per definire un mito platonico, Ferrari fornisce un prezioso elenco di criteri, la cui complessità non fa altro che confermare che la pretesa di definire o delimitare la categoria del mito è vana, e che ad un’ottica essenzialistica è preferibile un’ottica funzionalista basata sulla teorizzazione e l’effettiva pratica mitopoietica platonica: non si tratta dunque di stabilire a priori cos’è un mito, ma piuttosto di valutare a cosa serve, a chi si rivolge, che messaggio vuole veicolare.

La scelta di privilegiare un approccio funzionale al mito è il punto chiave dell’interpretazione platonica compiuta da Ferrari. Tale scelta comporta il fatto di interrogarsi di volta in volta sulla funzione che esso esercita nell’economia del dialogo in cui è contenuto. Scopriremo allora che il ricorso al mito, che si concretizza nell’abbandono della procedura dialogica a favore della narrazione monologica, avviene quando l’episodio non è né empiricamente né razionalmente dimostrabile o argomentabile (è il caso dei miti escatologici, come quello sul destino dell’anima nell’aldilà descritto nel Fedone (107D-115A) in modo immaginifico ed evocativo). Oppure avviene quando il linguaggio mitico (figurato) o l’uso dell’immagine interviene a spiegare nessi teorici e concettuali penetrando meglio dell’argomentazione teorica e analitica un fenomeno, dandoci una visione sinottica delle posizioni filosofiche argomentate in modo dialettico nel corso del dialogo. È il caso dell’immagine o metafora della linea (Repubblica, II 509D-511E) in cui vengono rappresentati i piani dell’essere e del conoscere, che riproduce visivamente e rende più comprensibile la teoria già esposta in forma dialettica; è il caso, ancora, della metafora delle marionette e della corda d’oro (Leggi, I 644D-645C) che esprime anch’esso in modo icastico la tesi filosofica della necessità del dominio della ragione sulle parti inferiori dell’anima, tesi che può essere espressa anche nei termini dialettici; è il caso, infine, dell’immagine della caverna (Repubblica, VII 514A-519A) in cui alla funzione esplicativa si aggiunge una funzione pedagogica che è quella di spingere l’anima alla ‘conversione’ verso la filosofia. In questo caso, inoltre, la capacità di coinvolgimento del mito è tale da trasformare un’imposizione (il richiamo ai filosofi ad occuparsi del governo della città che viene fatto nei libri precedenti) in un vero e proprio dovere morale (far ritorno alla caverna).

A questa capacità di coinvolgere l’anima dei destinatari è legata l’importanza sociale e politica del mito. È a questo livello che si può allora parlare di una sua verità (etica e non logica), una verità legata cioè alla sua utilità politica in quanto pharmakon utile alla città, alla sua funzione aggregante della comunità. È la “nobile menzogna” o “menzogna di stato”, mito falso ma utile ammesso a circolare per il bene della polis. È il caso del mito dei metalli (Repubblica, III 414B-415D), la cui funzione è quella di rafforzare la coesione sociale (raccontando la comune origine degli uomini dalla terra) e legittimare e rendere accettabile la gerarchia sociale che non è consuetudinaria ma naturale (i diversi metalli). O del mito di Atlantide e dell’Atene preistorica (Timeo, 21A-26A), la cui esistenza nel passato, non dimostrabile, rende pensabile e legittima la realizzabilità nel futuro della kallipolis e ne rafforza la coesione sociale e l’identità, insomma, dà concretezza storica e credibilità ad una concezione filosofica.

La mitologia tradizionale condannata nella Repubblica viene dunque ad essere sostituita da una mitologia positiva, conforme ai typoi peri theologias, ai modelli cui ogni racconto sugli dei deve conformarsi (deve presentare gli dei come buoni, causa solo di bene e di natura inalterabile), ed ammessa a circolare nella polis in vista di un progetto politicamente ed eticamente orientato alla costituzione di un orizzonte civico giusto; una mitologia civile usata da Platone stesso nel suo progetto di rifondazione dell’uomo e della città. Di essa fa parte il mito sulla provvidenza divina raccontato nelle Leggi (X 903B-905D) il cui scopo è quello di persuadere ulteriormente l’interlocutore, dopo l’argomentazione razionale (X 899D-903A), che la divinità è buona e agisce per il bene del tutto, alla luce del quale il destino del singolo, anche se sfavorevole, va valutato. Altro esempio di mitologia positiva è il mito di Eros, figura presente in diversi dialoghi ma soprattutto nel Simposio (209E-212C), che esprime il senso del progetto filosofico complessivo di Platone: l’ascesa agli oggetti supremi della conoscenza filosofica. La natura tensionale di Eros, ereditata dal padre Poros (desiderio per le cose belle e capacità di procurarsele), che integra la sua privazione o povertà ereditata dalla madre Penia, ne fa la metafora dell’essenza erotica della filosofia platonica, che è aspirazione alla conoscenza e al contempo consapevolezza di una condizione di privazione: tensione (philein) verso il sapere (sophia). Il movimento ascensionale verso la conoscenza (il mondo delle Idee) è dunque lo stesso percorso erotico-conoscitivo di Eros, che dal desiderio del bello sensibile culmina nel possesso del bello intelligibile, della Bellezza in sé, immutabile. Nell’ascesa di Eros verso il Bello ritroviamo dunque riassunti i due principali elementi della filosofia platonica: l’aspirazione alla conoscenza suprema e l’ambizione di rifondare la città e l’anima degli individui che è legata alla prima (applicare all’uomo la conoscenza per mezzo di leggi e costituzioni fondate sul sapere filosofico).
Tutto ciò è ribadito dal mito del viaggio metacosmico compiuto dall’anima prima di incarnarsi in un corpo raccontato nel Fedro (246A-249B), viaggio in cui avviene la contemplazione della pianura di verità, ovvero del mondo delle Idee descritto metaforicamente come un luogo al di là del cielo (l’iperuranio), e a cui è legata la conoscenza dell’anima una volta entrata nel mondo sensibile: il sapere è così anamnesis, reminiscenza di ciò che si è conosciuto in precedenza, ovvero della visione prenatale. Contro la posizione scettica dell’impossibilità di conseguire un sapere autentico in questo mondo, Platone ci dice che la conoscenza è possibile, e ciò usando il presupposto teorico – indimostrabile e quindi esposto in forma mitica – di un contatto pre-cosmico e pre-natale tra anima ed essere (mondo delle Idee), affinità ontologica che è compito della filosofia ripristinare. Il mito di un passato ontologico, del contatto tra anima e Idee rappresenta dunque l’antidoto (pharmakon) contro lo scetticismo epistemologico, fondando la possibilità della filosofia come conoscenza.

Degno di attenzione è poi il “mito verisimile” del Timeo, in cui il protagonista racconta l’origine e la costituzione fisico-ontologica del cosmo in un modo che sembra scientifico, simile al discorso filosofico e diverso dai miti escatologici, pseudo-storici o dalle menzogne di stato, e che Platone stesso introduce come “logos” o “mythos” alternativamente, ma con l’importante aggiunta del qualificativo “eikos” (verisimile, plausibile, probabile). L’uso del mito per parlare del cosmo sensibile dipende dallo statuto ontologico del cosmo stesso: essendo questo una copia di quello intelligibile, ogni trattazione su di esso non può pretendere di essere inconfutabile, vera, ma deve accontentarsi di essere simile a quella vera. Il motivo per cui Platone ricorre al mito verisimile per trattare dell’universo sensibile ha origine nel fatto che la struttura narrativa (e quindi cronologica) del racconto mitico permette a Platone di esporre la generazione dell’universo, che rimane un processo di causazione ontologica, in forma cronologica, collocando così nella dimensione del tempo rapporti di dipendenza che sono in realtà di natura ontologica. Il mito temporalizza relazioni di dipendenza metafisica. La priorità ontologica dell’essere, dello spazio, del divenire rispetto al mondo viene declinata per mezzo del mito in priorità temporale, in modo da essere compresa anche da chi non è filosofo. Il tempo, e il mito che ne riproduce la struttura, forniscono lo strumento più adatto all’esposizione didattica di un’analisi ontologica, filosofica, accontentandosi però di raggiungere la verosimiglianza e non l’esattezza.

Non manca infine un cenno allo statuto mitico del dialogo platonico, così come viene presentato ad esempio nella Repubblica (II 376D; VI 501E), in cui i personaggi sembrano considerare l’opera di costruzione discorsiva della città ideale nella quale sono impegnati come un mito, nel Fedro (276D), o nelle Leggi (VI 752A; VII 812A), in cui i personaggi definiscono mito il discorso nel quale sono impegnati o considerano la costituzione delineata nel dialogo come la «più bella e migliore» di tutte le tragedie (VII 817B). Ferrari avverte la forzatura di una lettura dei dialoghi come una nuova forma di mitologia e tragedia che verrebbe a sostituirsi a quella tradizionale, e avverte il rischio di una conseguente svalutazione della portata filosofica del corpus dialogico platonico che porterebbe a reperire così la vera filosofia platonica nella sola dialettica orale, cioè a dire nelle dottrine non scritte, alla luce delle quali solamente i dialoghi “mitici” avrebbero significato. Più ragionevole è piuttosto, secondo Ferrari, considerare i dialoghi e i miti in essi contenuti come dei paramythia. Il dialogo filosofico rappresenta cioè un’esortazione alla filosofia, un conforto, uno strumento di persuasione percorso da argomentazioni, scontri dialettici, confutazioni razionali. Un intreccio dinamico tra mythos e dialogos in cui Platone rimane però consapevole dello scarto all’interno del dialogo tra i momenti narrativi e quelli argomentativi e dell’opportunità di subordinare i primi ai secondi, poiché la filosofia non è mitologia, anche se della mitologia si serve come strumento indispensabile.

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