Metabasis N. 36
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Fragments 4

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Stefano Vaj, Biopolitica. Il nuovo paradigma, Con una appendice di Guillaume Faye

Società Editrice Barbarossa, Milano, 2005, pp. 301, € 20

Claudio Bonvecchio

Il tema che Vaj affronta in questo saggio – ampiamente documentato, ricco di spunti e corredato da interessanti materiali conoscitivi – è, oggi, particolarmente attuale, intrigante e vagamente inquietante. Non solo perché di bioetica, di biotecnologie e di ecologia si parla continuamente e quotidianamente ma, soprattutto, perché se ne parla a sproposito. O meglio, perché se ne parla con il chiaro intento di orientare l’opinione pubblica nella direzione di una accettazione o di un rifiuto dell’argomento senza sottoporlo al vaglio di una critica precisa, pertinente, rigorosa e corretta. Così, parole come bioetica e biopolitica – quasi di soppiatto - sono entrate nel pensiero e linguaggio comune, dove “comune” ha una accezione sicuramente negativa, accreditando una fantascienza che sembra realtà ed una realtà che si colora di fantascienza. Ma – per fortuna - ci sono delle eccezioni: come Vaj. Vaj, infatti, con il rigore del giurista, l’aplomb dell’accademico e la leggerezza dello scrittore tenta (con successo) di colmare questa lacuna (la critica precisa, pertinente, rigorosa e corretta, sopra ricordata), cercando di fare ordine e chiarezza. In primo luogo, contestualizza l’argomento nel mito nietzscheano e post nietzscheano dell’uomo nuovo. È, se vogliamo il tentativo – se non disperato, certamente estremo - di rispondere alla modernità ed al suo appiattimento decadente con categorie nuove (bio-logiche, eco-logiche, tecno-logiche) e con una nuova antropologia, in grado di coniugare tecnica e bellezza, etica e politica, individuo e massa, diritti e doveri, materia e spirito. Coincide con la ricerca spasmodica di un paradigma: di un modello da seguire in una età che non ha più modelli, se non quelli conformistici, pubblicitari e di mercato. Ma per questa esigenza non bastano le “giravolte” ecologiste e le capriole antropologiche o socio-biologiche. Ci vuole qualcosa di più: ci vuole un interlocutore politico. D’altronde, in questo campo - dove massimo il discrimen è tra l’umano ed il disumano e dove la “differenza” può diventare esclusione - le scelte non possono essere individuali e di parte. E questo, ed è il secondo punto, viene colto da Vaj con rara e coraggiosa precisione, spazzando via scientismi, neo-positivismi e metafisiche della scienza. Lo fa quando afferma che l’uomo nuovo – il “terzo uomo” – corre il rischio di essere solo l’esito malato e geneticamente impoverito della manipolazione genetica stessa. Ma anche quando rileva il limite della selezione culturale ed ambientale che la globalizzazione ha utilizzato per omogeneizzare le differenze e, quindi, per negarle, rendendole artificiali. Si potrebbe parlare – ma non è certo Vaj ad affermarlo – di una voluta “democratizzazione” genetica: con tutti i rischi impliciti nella democratizzazione, come la storia insegna. Ma anche in questo - come si diceva - manca un reale interlocutore politico anche se ci sono stati importanti antecedenti storici. Basta pensare ai (non riusciti) tentativi eugenetici nazisti e fascisti, ma non solo, vista la particolare attenzione scandinava ed americana al problema: ovviamente passata sotto silenzio in nome del “politicamente opportuno”. Oggi – in mancanza del politico - i bio-scienziati ed i tecnocrati sono gli unici interlocutori. Solo i bio-scienziati ed i bio-tecnocrati signoreggiano questo campo, da un lato interessati alle esperienze più estreme (e non certo egualitarie) in virtù della diversificazione genetica e dalla curiosità bio-ingegneristica, dall’altro però, a loro volta, dipendenti dal mercato. È dal mercato, infatti, che traggono i fondi cospicui necessari per le loro costosissime ricerche ed il potere che a loro deriva. Mercato che più che all’uomo pensa agli organismi geneticamente modificati (sino al limite del grottesco o del mostruoso), all’uso agro-alimentare della genetica, ad un utilizzo bellico spregiudicato (come già è avvenuto negli Stati Uniti ed altrove) e alla bionica: l’eugenetica post-moderna, fondata non sulla razza ma sulla fredda interscambiabilità di organi, geni e cromosomi.

Dinnanzi a questo “ruere in pejus” senza fine che ripropone un era primordiale senza certezze – ed è la conclusione sapienziale di Vaj – l’umanità si trova sola. Sola e desiderosa “di eroi fondatori”, “di poeti” e di “aristocratici”che la traghettino verso il futuro: un futuro difficile ma, a suo modo, affascinante. È ancora una volta – seppur espressa in altro linguaggio – la ricerca di un soggetto politico, di un metaforico (o reale) sovrano che in una posizione supra partes sia un novello Salomone, decidendo ciò che è meglio, più giusto e più fondato fare per il bonum commune. Ma una simile figura ed un tale ruolo – ad oggi  – sembrano molto più futuristici ed avveniristici dei realistici sogni bio-genetici degli scienziati che, di fatto, hanno preso il posto di un inesistente “bio-politico”. Sembra, dunque, che non ci sia altra soluzione che appellarsi fiduciosi - come fa Vaj – al futuro e a chi «saprà esprimere la volontà più forte, la consapevolezza più profonda». Ma, francamente, appare come il sogno di una improbabile, autonoma e spontanea rinascita. E neppure le speranze archeofuturiste di Faye sembrano avere maggior plausibilità, affidando all’ingegneria genetica il compito, surrogatorio ed artificiale, di «compensare e risanare la nostra decadenza biologica e demografica». D’altronde, difficile – se non arduo o velleitario - è invertire il trend di decadenza, tanto storico che biologico, dell’Occidente. Forse è veramente finita una civiltà. O, forse, bisogna solo attendere, rifugiandosi in un “metaforico” bosco e facendosi “ribelli”: secondo il progetto jüngeriano. È, forse, il momento di attestarsi su di una linea di massima resistenza ed attendere ciò che verrà, sperando di non finire come lo sfortunato tenente de Il deserto dei Tartari di Buzzati o di non essere ridotti a replicanti.

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