Metabasis N. 36
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Fragments 4

Comptes rendu

S. Zanardo, Il legame del dono, presentazione di Carmelo Vigna

Vita & Pensiero, Milano 2007

Carlo Gambescia

Il dono non è un’eccezione storica. Le società, anche quelle “normali”, lo hanno sempre praticato. Si pensi al mondo “primitivo” regolato da meccanismi, volti a sublimare le guerre, e perciò legati allo scambio reciproco di doni rituali (collane, bracciali, cibi particolari). Oppure al mondo antico dove privati e ricchissimi cittadini, di regola, donavano alla collettività acquedotti, templi, anfiteatri. E a quello tardo medievale, caratterizzato da anonimi e ricchi donatori, pronti a finanziare la costruzione di imponenti chiese. E poi, si ricordi, l’assistenza ai poveri: un fenomeno sociale che attraversa il medioevo e l’età moderna, prolungandosi fino ai nostri giorni, anche nell’opera delle organizzazioni filantropiche laiche e religiose. Esiste, insomma, nelle società una sfera del dono, che nel tempo si allarga e restringe, senza però mai scomparire.

Ora, sul piano del metodo, lo studio del dono appartiene alle sfere della filosofia morale deduttiva? O della sociologia induttiva? O piuttosto della sociologia induttiva-deduttiva? Non è facile rispondere. Tuttavia la questione non è secondaria. Per quale ragione? Perché esiste un imperativo conoscitivo. Per dirla, classicamente, con il neokantiano Heinrich Rickert, il mondo esterno dei rapporti umani costituisce per noi un semplice oggetto di esperienza (Erfahrungsobjekt) che è necessario trasformare in oggetto di conoscenza (Erkenntnisobjekt) (1). Di qui il nostro bisogno di individuare e usare, anche per studiare il dono, un metodo di conoscenza (induttivo e/o deduttivo). Ma eventualmente anche una ontologia (deduttiva): nel senso di fissare a priori l’essenza ed i limiti particolari di ciò che si intende conoscere. La scelta metodologica è dunque molto varia e probabilmente per questa ragione ricca di insidie.

Il metodo della sociologia induttiva, procede dal particolare al generale, quello della sociologia induttiva-deduttiva coniuga le due metodologie, Mentre quello filosofico-morale, di regola, è deduttivo, perché procede dal generale al particolare.

Il sociologo-induttivo parte dai singoli fatti; il sociologo induttivo-deduttivo dai fatti risale ai concetti generali, per poi ritornare sui fatti; il filosofo morale, di regola parte da “un” fatto o categoria generale.

Ad esempio il dono, dal punto di vista storico e sociale si è manifestato nelle società più differenti. E, di volta in volta, qualificandosi secondo quello che era il sistema di mentalità socioculturale prevalente in un certo tempo e in una certa società. Di qui la necessità per il sociologo, che sappia apprezzare la storia, di parlare di “doni” al plurale e non di “dono” al singolare. Mentre, dal punto di vista morale, il dono, pur manifestandosi nelle società storiche più differenti, sembra mostrare un comune denominatore nella generosità e nella volontà di “donarsi” all’altro. Da qui l’inclinazione del filosofo morale di parlare di “dono” al singolare e non di doni al plurale.

Va detto che spesso la sociologia, studiando i doni, si è lasciata contaminare dalla filosofia morale o sociale, volgendosi allo studio del dono, come forma di “a priori” sociologico, coniugando così particolare ed universale.

Per limitarci alla seconda metà del Novecento e ai pensatori più rappresentativi in questo campo, un esempio del primo approccio (sociologico e induttivo) è dato dall’opera di Karl Polanyi. Sociologo e storico che ha studiato dal “basso” (dal particolare) l’economia e il dono, come forma di agire sociale orientato ai valori, riconducendo i doni nell’alveo di alcune differenti e particolari forme intermedie di “integrazione” sociale e storica, basate concettualmente su differenti accezioni dei doni. Al plurale (2).

Un esempio del secondo approccio (sociologico induttivo-deduttivo), è quello del sociologo americano Alvin W. Gouldner che ha analizzato prima teoricamente il dono dall’alto (dall’universale), come “a priori sociale”, quale meccanismo di “avvio” dei rapporti sociali, e poi verificato le sue tesi sul campo (“in basso”, sul particolare), al punto di riuscire a individuare in una reciprocità sociale (universale), intessuta di scambi utilitaristici e di doni puri (particolari), un meccanismo capace di tenere insieme le società, ovviamente assumendo, di volta in volta, le più diverse forme storiche e culturali (3).

Un esempio del terzo approccio è quello di Maurice Nédoncelle, filosofo morale, personalista ma appartato da Mounier. Il quale da ontologo ha ricondotto deduttivamente il dono nell’alveo della reciprocità delle coscienze quale fusione dell’io con il tu, in termini di un dono, inteso sempre come atto fondante (e universale) di amore agapico e di identificazione reciproca. Un sacrificio di sé, in senso cristiano, senza il quale non è data reciprocità, né società (4 ).

Ora, il libro di Suzy Zanardo (5), di cui qui ci occupiamo, condivide questo terzo approccio deduttivistico (ma con risultati come vedremo non proprio esaltanti). Essendo, del resto, l’autrice docente di filosofia morale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e già borsista del Centro Universitario Cattolico (CUC), collaboratrice del Centro Interuniversitario per gli Studi sull’Etica (CISE), nonché segretaria scientifica del Centro di Etica Generale e Applicata (CEGA) dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia. Sempre alla Zanardo si deve, in collaborazione con Carmelo Vigna, la curatela di un interessante volume su La regola d’oro come etica universale (Vita & Pensiero, Milano 2005).

Prima di entrare nel merito del volume, va purtroppo sottolineata la diseguale lunghezza delle varie parti del volume. Perché si tratta di un “disequilibrio” che purtroppo finisce per influire sull’amalgama e sulla forza dell’argomentazione, che perde nerbo soprattutto nelle lunghissime parti centrali (prima e seconda, che vanno a costituire quasi due libri all’interno del libro “principale”...). Sostanzialmente vi è uno squilibrio tra la brevità (certo relativa...) dell’introduzione (60 pagine), dove si affronta troppo rapidamente il dono, affastellando materiali su materiali; la parte terza (69 pagine), dove si tirano, altrettanto frettolosamente le fila teoriche del discorso; e le due spropositate, per lunghezza, parti prima (210 pagine) e seconda (253 pagine), dedicate rispettivamente all’analisi del pensiero in argomento di Jean-Luc Marion e Jacques Derrida. Va anche sottolineato che nell’ultimo capitolo della parte seconda (“Passaggi”, 27 pagine), l’autrice ritorna, in modo ridondante, sul raffronto Marion-Derrida, già abbondantemente sviluppato, almeno come sottotesto, nelle circa 400 pagine precedenti. Provocando, crediamo, anche nel lettore ben disposto e nemico dei nominalismi, un improvviso ritorno di simpatia per le famigerate tesi occamiane sulla necessità di non postulare, moltiplicandoli, entità inutili.

Venendo alle argomentazioni, come già accennato, il testo si muove sostanzialmente intorno alle tesi di Marion e Derrida: tra fenomenologia e decostruzionismo, con minori esercizi di stile su Heidegger, Husserl, Lévinas e Nietzsche e altri secondari o presunti tali. Comunque sia, l’ordito argomentativo si muove tra possibilità-visibilità (Marion) e impossibilità-invisibilità (Derrida) del dono. Pertanto l’ontologia del dono, che la Zanardo si sforza di costruire sulle orme di due pensatori - assai deboli, per giudizio comune, come ricostruttori di una scienza dell’essere, anche in termini di sola analisi dei suoi confini - per un verso dice troppo, perché si basa sul dono come a priori fenomenologico (Marion), e per l’altro poco, perché decostruisce il soggetto (Derrida), relegandolo nella sua intenzionalità individualistica.

E quest’ultimo fatto sarebbe poco male, visto che l’autrice pare muoversi sul piano della ricerca deduttiva (parte infatti dagli studi della Marion sull’assioma del Cartesio profeta del modernismo soggettivistico; per inciso, nessun accenno al Cartesio ontologista e problematico di Del Noce...). Tuttavia quando si occupa del dono individua la sua caratteristica ontologica fondamentale nell’ambiguità, abbandonando ogni rigore deduttivo e definitorio: la Zanardo scorge dietro il dono e nel suo essere al centro di un dare e di un prendere qualcosa dall’altro, una volontà di malcelato dominio: una specie di impasto di bene e di male che ambiguamente sembra segnare uomini e cose. Il “lato dell’ ambiguità - scrive l’autrice - non conduce inequivocabilmente da una parte o dall’altra, ma si situa in un territorio intermedio, dove l’ambiguità del dono diventa anche al sua forza e la sua fecondità , ovvero ‘il segno della sua verità, della sua umanità profonda’ “ (p. 61, corsivi nel testo). Insomma, il male dell’ambiguità, o meglio della complessità, che tanto piace ai postmoderni come Derrida, può essere feconda via al bene, anche per la Zanardo... Il punto è che non spiega come. L’autrice si ferma sulla soglia dell’autoriproduttività del legame sociale, al di là del bene e del male, come vedremo più avanti. Si affaccia e si tira indietro.

Ma torniamo alla scelta metodologica della Zanardo. Non può non essere sottolineato quanto sia fuorviante, in termini di risultati, il connubio tra la necessità ontologica di perseguire l’essenza, ponendo limiti epistemologici e l’istanza decostruzionista alla Derrida, che ha invece proprio nell’assenza di limiti alla scomposizione sistematica di un fenomeno, che implica l’elogio dell’ambiguità dell’essere sociale (il che chiama in causa, benché criticamente, anche certa fenomenologia dell’ im possibilità di Marion, ma qui il discorso sarebbe troppo lungo). Insomma, o si fa dell’ontologia, e in questo senso si individuano fondamenti e limiti del campo analizzato, oppure si fa della contro-ontologia, indicando la necessità di rifiutare fondamenti e limiti. Cosa, quest’ultima, che conseguentemente richiederebbe la rinuncia alla ricerca di qualsiasi “onto-etica” del dono (p. 63). Il contrario, insomma, di quel che si propone la Zanardo.

Insomma, delle due l’una: o il dono è un a priori fenomenologico-sociale oppure non lo è. Non si può sostenere al tempo stesso l’una e l’altra cosa. E soprattutto alla luce di un uomo atomizzato e filosoficamente ripiegato su un’ intenzionalità soprattutto segnata dall’indecisionismo, che non sa se accettare o meno il dono, come appunto asserisce la Zanardo nella sua pseudoontologia dell’ambiguità. Ma se il dono può essere rifiutato dall’uomo, che a priori fenomenologico-sociale è?

Questa scelta metodologica, purtroppo fondata sui padri filosofici bravi ma sbagliati (Marion e Derrida), porta la Zanardo a declinare il dono il termini di un contraddittorio decostruzionismo fenomenologico, che vuole fondare non fondando... E che in pratica finisce per recidere qualsiasi ponte tra l’intenzionalità soggettiva e la fenomenologia oggettiva del mondo sociale: tra uomini e mondo dei valori. Nei termini di un’azione weberianamente intesa, come motivata allo scopo e/o ai valori. E in questo senso la categoria concettuale dell’ambiguità, introdotta dall’autrice, si presta abbastanza bene piuttosto che per una ontologia del dono, per una sua nebbiosa contro-ontologia.

Ed è quel accade, come risulta evidente quando la Zanardo entra finalmente nel merito della questione “legame del dono”. Ma lasciamo a lei la parola: “Il legame, allora, quando le due intenzionalità [degli attori sociali] sono orientate al bene, ovvero alla ‘fioritura’ dell’altro come fine, si inscrive in una circolazione feconda: il donatore si scopre donatario (scopre un legame alle spalle con uno o più donatori che lo precedono); il donatario, da parte sua, passando dalla ricezione del dono alla sua accoglienza, si accende del desiderio di legarsi a sua volta con interlocutori anche diversi. Così, l’altro come fine e la costruzione di una dinamica donante come fine trovano una loro consistenza nel fatto che il legame è [...] il senso che si instaura tra i due, ovvero il luogo di tessitura degli orizzonti intenzionali che, nel legarsi, si danno senso . Nel dono, quindi, il fine è l’altro e il legame è quel che accade tra i due quando vengono attivate dinamiche di riconoscimento. Possiamo tranquillamente indicare nel “legame” il senso e la verità del dono” (p. 602, i corsivi sono nel testo).

E qui per dirla tutta, intendere il Bene - per un cattolico come intuiamo sia la Zanardo, dopo venti secoli di antropologia cristiana, faticosamente costruita da Padri, Dottori e filosofi della Chiesa - come generica “fioritura dell’altro” è a dir poco superficiale... Anche per Marx, Nietzsche, Freud l’uomo era un fine. E abbiamo visto con quali risultati. E, quel che è peggio, la Zanardo non specifica che cosa intende con “fioritura dell’altro”. Si limita a puntare, come al tavolo da poker tutte le sue fiches, sul legame che può scaturire dal dono: un fiducia che ricorda tanto certe sulfuree pagine, sicuramente non teistiche, del Collegio di Sociologia, animato dai vari Bataille, Caillois, Klossowsky, eccetera.

Celebrare il “legame” in quanto “dinamico” di per sé - senza indagarne i valori sui cui si fonda, valori che per un cristiano sono quelli di una socialità agapica che sgorga dal suo riferirsi nella pratica alla teologia dell’uomo imago dei (6) - significa ripiegare dopo una cavalcata di seicento pagine su una visione vitalistica (e in fondo formalistica, perché si privilegia una forma: il legame) delle relazioni tra donatore e donante. E dove l’intenzionalità viene posta non al servizio di una ontologia del bene, ma di una ontologia vitalistica del legame, basata sul dono. Dove quest’ultimo, viene visto come qualcosa di intercambiabile, che in teoria può unire, a qualsiasi titolo, gli esseri umani. Come, del resto, è la stessa Zanardo a sostenere quanto parla di specularità tra legame del dono e dono del legame. Un’espressione che non è un gioco di parole, ma un’ inevitabile attribuzione di validità non alla sostanza culturale del dono, ma alla sua forma autoriproduttiva e vitalistica, a prescindere dai suoi contenuti spirituali. Per quale ragione inevitabile? Perché l’adesione a un contraddittorio decostruzionismo fenomenologico, non può poi non implicare costitutivamente anche la tabula rasa dei valori. Di tutti i valori (inclusi quelli cristiani). E dunque non può non sfociare in un’interpretazione del dono, che come il lettore avrà capito, non è più deduttiva né induttiva, ma semplicemente distruttiva di ogni forma di vero Bene individuale comune. Una specie contro-ontologia: in quanto riduce i valori a sottoprodotti di un legame, che finisce, questo sì, per acquisire, valore ontologico. Ma per andare dove? La Zanardo, in oltre seicento pagine, non lo esplicita. Come in ogni vitalismo anche qui il movimento sembra essere tutto, il fine nulla.

Il punto della questione è che il dono andrebbe studiato con l’ausilio di tipologie socioculturali capaci di coniugare metodologicamente il momento induttivo con quello deduttivo. Non esiste insomma una “forma dono” pura sotto l’aspetto fenomenologico, oppure soltanto “doni”, come fatti sociali singoli, poi difficilmente riconducibili, a forme generali se non del tutto astratte. Esistono forme di mentalità socioculturale, sociologicamente verificabili, analizzate ad esempio da sociologi come Pitirim A. Sorokin, grande studioso tra l’altro della forza creativa dell’altruismo umano (7), che ci permettono di ricondurre il dono, seppure a grandi linee, nell’alveo di almeno tre idealtipi socioculturali e di tre diverse forme di reciprocità: sensistico, ideazionale, idealistico. Il che ci consente di avere: a) un dono agapico, spiritualmente elevato e motivato (ideazionalismo), che si nutre di reciprocità equilibrata: “dare qualcosa o tutto in cambio di nulla” b) un dono materialistico e utilitaristico (sensismo), che riflette una reciprocità negativa: “dell’ottenere molto in cambio di poco o nulla”; c) un dono al tempo stesso sensistico e ideazionale (idealistico), che cerca di coniugare il meglio delle categorie precedente, e che rispecchia un forma di reciprocità generalizzata: “un dare e ricevere l’equivalente”.

Nella prima tipologia rientrano ad esempio la protezione del debole, la carità, la filantropia, la solidarietà incondizionata nella loro autenticità spirituale sociale. Nella seconda le pseudoforme utilitaristiche di protezione del debole, di carità, filantropia, solidarietà, volte insomma a ridurre l’altro in stato di sudditanza; nella terza tipologia rientrano una sintesi degli aspetti migliori delle due forme precedenti (8).

Il che significa che in una società, come la nostra, dove prevalgono il sensismo e l’utilitarismo, avranno la meglio in grande misura i doni materialistici e utilitaristici. E che di conseguenza anche le azioni sociali dei singoli, in larga parte saranno riferiti a tali scopi e valori. E così via, ma al contrario, in una società ideazionale...

La metodologia sorokiniana, se per un verso ci permette di indicare un ideale da perseguire quello del dono ideazionale o idealistico, che tanto rinvia ai valori del Vangelo e di un uomo imago dei , per l’altro ci offre schemi per interpretare e studiare la realtà. Coniugando così universale e particolare.

In conclusione, come ha scritto Maurice Nédoncelle a proposito dell’amore agapico: “Ogni percezione d’altri implica un minimo di reciprocità; ogni reciprocità è inizialmente legata all’amore; ogni amore personale è insieme sentimento, conoscenza, volontà di promozione; ogni volontà di promozione, infine, provoca una continuità del mondo degli spiriti [...]: una identità eterogenea dell’io e del tu, giacché l’io ideale e il tu si confondono allora nell’atto di amore” (9).

I doni, insomma, implicano sempre una socialità reciprocitaria e agapica: l’amore diffuso viene prima del legame, ma si rafforza grazie a esso. Tuttavia le differenze negative o positive (anche in termini reciprocitari), come l’ambiguità o la sincerità racchiusa nei doni, sono nello “sguardo” di chi guarda e pratica il dono. Non è il legame (come forma) a fare il dono, o il dono (come forma) a fare il legame, come sostiene Susi Zanardo. Ma, come ci insegnano Sorokin e Nédoncelle è la qualità e quantità di amore sincero e agapico (puro e disinteressato) che sono nell’aria, negli “sguardi” e perciò “immesse” e racchiuse nella socialità storica di una civiltà. Ma sono anche una fiamma che non dovrebbe mai spegnersi. Il che significa che quantità e qualità agapica degli atti d’amore sono socialmente condizionate (e dunque mai totalmente determinate...) dal tipo di mentalità socioculturale che distingue un sistema storico. Pertanto se proprio si deve fare della fenomenologia oggettiva del dono, si deve ripartire epistemologicamente dalla fenomenologia dei valori, e dallo studio della loro introiezione da parte degli uomini. Lo studio del dono implica lo studio della socializzazione e dei valori connessi con essa. Il che significa che l’uomo può contribuire attraverso l’educazione e l’autoeducazione a tenere accesa quella fiamma.

Il dono, come l’essere umano, prima che fatto soggettivo, è “fatto socioculturale” e dunque educativo. E l’”ambiguità” non giova a coloro che educano e a coloro che devono essere educati.

Il che non va mai dimenticato.


1 Di Rickert si veda il celebre, Die Grenzen der Naturwissenschaftlichen Begriffsbildung. Eine logische Einführung in die historischen Wissenschaften Mohr, Tübingen 1896-1902.

2 Di Polanyi si veda La sussistenza dell’uomo. Il ruolo dell’economia nelle società antiche (1977), Einaudi, Torino 1983 (in particolare il capitolo terzo).

3 A.W. Gouldner, La norma di reciprocità e L’importanza di qualcosa in cambio di nulla , in Idem, Per la sociologia (1973), Liguori Editori 1977.

4 M. Nédoncelle, La réciprocité des consciences. Essai sur la nature de la personne , Aubier-Montaigne, Paris 1942; Idem, Vers une philosophie de l’amour et de la Personne , Aubier-Montaigne, Paris 1957.

5S. Zanardo, Il legame del dono , present. di Carmelo Vigna, Vita & Pensiero, Milano 2007 (pp. XVIII-636 - Euro 45,00).

6 Sul concetto di amore agapico, fraterno, comunitario, disinteressato e soprattutto teocentrico, anche per le sue inflessioni sociologiche, in termini di socialità, rinviamo a A. Nygren, Eros e Agape. La nozione cristiana dell’amore e le sue trasformazioni (1955, 2° ed.), EDB, Bologna 1990.

7 Si veda P.A. Sorokin, L’energia misteriosa dell’amore (1958), in AA. VV, La gioia del dono. Simboli e gesti del sentimento , in “Avallon. L’uomo e il sacro”, n. 41, 1997, pp. 61-71, nonché Idem, The Ways and Power of Love. Types, Factor, and Techniques of Moral Trasformation , The Beacon Press, Boston 1954. Su questo studioso si veda il nostro Invito alla lettura di Sorokin , Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2002.

8 Abbiamo approfondito questo tema, anche con esemplificazioni storiche e sociologiche, in C. Gambescia, Il dono. Un’introduzione teorica , , in A.A.V.V., La Gioia del dono, fasc. cit. pp. 61-89. Ma si anche veda la tabella esplicativa a p. 84; nonché, per lo studio particolareggiato del concetto di reciprocità cfr. Idem, Il declino della reciprocità . Riflessioni sull’economia politica del dono , in “Trasgressioni”, n. 12, Maggio-Agosto 1990, pp. 39-50-

9 M. Nédoncelle, Vers une philosophie de l’amour et de la personne, cit. (trad. it. Verso una filosofia dell’amore e della persona , Edizioni Paoline 1959, p. 87)

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